Il marketing dei sostituti del latte materno
Adriano Cattaneo, Epidemiologo, Burlo Garofolo, Trieste
Introduzione
To monger: commerciare, vendere, trafficare. Disease mongering: inventare malattie per farne commercio. Uno sport talmente alla moda che la prestigiosa rivista elettronica PLoS Medicine vi ha dedicato un numero speciale ed ospita sul suo sito un’interessantissima collezione di articoli [1]. Uno sport non nuovo. Ray Moynihan e Alan Cassels ci hanno scritto un libro [2]. Nell’introduzione riportano alcune frasi da un’intervista che Henry Gadsen, all’epoca direttore della compagnia farmaceutica Merck, concesse trent’anni fa alla rivista Fortune: “Il nostro sogno è quello di produrre farmaci per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque. É un peccato che io non sia stato in grado di rendere la Merck simile a Wrigley (produttore di chewing gum, ndr).” Ma Henri Nestlé aveva anticipato Gadsen di oltre un secolo. Nel 1867 aveva salvato la vita ad un neonato prematuro, la cui madre era gravemente ammalata e non in grado di allattare il figlio, con “un latte svizzero intero ed un’aggiunta di cereali cotti al forno con un procedimento speciale di mia invenzione”, un prodotto che egli stesso denominò farina lattea. L’anno seguente Henri Nestlé dovette aprire un ufficio a
Londra per gestire ordini in costante aumento. Nel giro di cinque anni esportava in Australia e Sud America. Nel 1874 vendette la sua compagnia per un milione di franchi svizzeri. La Nestlé continuò ad espandere, e diversificare, il suo mercato fino a diventare quella che oggi conosciamo: la più grande multinazionale degli alimenti e sicuramente la prima nel settore degli alimenti per lattanti e bambini. In Italia è presente con il proprio marchio e con il marchio Guigoz. Ma grandi affari in questo settore li fanno anche:
Londra per gestire ordini in costante aumento. Nel giro di cinque anni esportava in Australia e Sud America. Nel 1874 vendette la sua compagnia per un milione di franchi svizzeri. La Nestlé continuò ad espandere, e diversificare, il suo mercato fino a diventare quella che oggi conosciamo: la più grande multinazionale degli alimenti e sicuramente la prima nel settore degli alimenti per lattanti e bambini. In Italia è presente con il proprio marchio e con il marchio Guigoz. Ma grandi affari in questo settore li fanno anche:
· la francese Danone, presente sul mercato europeo ma anche africano, sudamericano, russo e mediorientale. Fino a poco tempo fa era presente in Italia con il solo marchio
Blemil, ma poi ha acquistato l’olandese Numico, diventando seconda al mondo dopo la Nestlè, ed è ora presente in Italia con i marchi Nutricia, Milupa e Mellin, ed in altri paesi anche
come Cow & Gate e Dumex;
· la tedesca Humana, che controlla anche la spagnola Milte, presente anche come Milte Italia, e Hipp, quest’ultima in rapida espansione nei mercati dell’est europeo;
· la Plasmon, controllata dalla multinazionale americana Heinz, conosciuta anche per i marchi Dieterba e Nipiol (Farley in altri paesi);
· la Mead Johnson, controllata dalla multinazionale farmaceutica angloamericana Bristol-Myers Squibb, che afferma di essere leader mondiale con i prodotti della serie Enfamil;
· alcune aziende italiane minori come Chiesi, Dicofarm, Syrio, Medifood e Sicura;
· la Wyeth (recentemente acquisita da Pfizer) e la Abbott-Ross, due multinazionali USA del farmaco che, con la Mead Johnson e la Gerber (prima Novartis, ora Nestlé), dominano il
mercato nordamericano, ma non sono presenti, se non sporadicamente, in Italia;
· le giapponesi Meiji, Morinaga e Snow che contendono alle altre multinazionali il mercato asiatico;
· le new entries russe (Nutritec) e cinesi (Guangdong Yashili, Hangzhou Beingmate, Jianqxi Meilu, Sanlu, quella dello scandalo melamina) che per il momento si limitano a sgomitare con le
multinazionali per un posto al sole.
Com’è possibile che un prodotto inventato per salvare una vita in casi gravi sia diventato di uso comune per mamme e bambini che non ne hanno bisogno, sostituendo tra l’altro un prodotto a costo zero, ecologico e qualitativamente inarrivabile come il latte materno? A quest’espansione hanno sicuramente contribuito fattori sociali come il passaggio dalla famiglia estesa a quella nucleare ed il progressivo inserimento della donna nel mondo del lavoro. Ma un ruolo importante l’ha avuto il “mongering”, l’invenzione di un bisogno inesistente per “vendere ai sani”.
Il marketing dei sostituti del latte materno
La foto a sinistra mostra come già nel 1893, a Roma in Piazza Colonna, dietro le “prime torreggianti lampade elettriche”, fosse ben visibile una pubblicità della farina lattea Nestlé, presentata come un alimento per bambini, non per bambini ammalati o figli di madri ammalate. L’immagine di destra è una pubblicità diffusa in Francia negli stessi anni. Anche in questo caso la “fresca felicità” della farina lattea è proposta per una madre ed un bambino del tutto normali. Era così in tutto il mondo: fin dall’inizio, nonostante il mito originario del prematuro cui Henri Nestlé aveva salvato la vita, i sostituti del latte materno sono stati proposti come il chewing gum, come prodotti per tutti. I produttori avevano già capito quello che Jean Baudrillard avrebbe descritto molto più tardi: che la pubblicità, da strumento d’informazione, poteva diventare potente strumento di persuasione occulta, volta ad influenzare i consumi, i comportamenti, le aspirazioni e addirittura i bisogni percepiti della gente [3].
Contemporaneamente all’invenzione e allo sviluppo dei sostituti del latte materno, nasceva e cresceva la moderna medicina scientifica. Una delle caratteristiche della quale era ed è la medicalizzazione, cioè il tentativo o la pretesa di sottoporre a controllo medico tutti gli eventi nella vita di un individuo che possono influenzare la sua salute. È successo con il parto, ed è successo con l’alimentazione dei lattanti e dei bambini. L’allattamento e lo svezzamento, che per millenni erano stati praticati in modo naturale, mediante la trasmissione intergenerazionale dei relativi comportamenti, diventano oggetto di attenzione da parte dei pediatri. Non potendo controllare quantità e qualità del latte materno, essi accolgono con favore l’idea di usare e prescrivere un sostituto. All’inizio, verso la fine del XIX° secolo, sono avversari dell’industria; ritengono infatti che spetti a loro, e non a “chimici” come Nestlé, Liebig e Mellin, stabilire la composizione del prodotto. Sono soprattutto i pediatri americani a lanciarsi nell’impresa e a sviluppare diverse “formule” per diluire e mescolare il latte di mucca con altri ingredienti, nel tentativo di renderlo adatto all’alimentazione del lattante. La parola “formula”, tuttora usata in inglese per indicare il latte artificiale ed ormai entrata in uso anche nel dizionario pediatrico italiano, nasce proprio a cavallo del XIX° e del XX° secolo alla Facoltà di Medicina dell’Università di Harvard. Attorno al 1920, tuttavia, la maggioranza dei pediatri, frustrata dalla complessità di prescrivere e preparare le formule proposte dalla varie scuole di pediatria, raccomandavano ormai le formule industriali.
Si forma così, per consolidarsi in seguito in tutto il mondo, una stretta alleanza tra le professioni sanitarie, pediatri in primis, ma non solo, e l’industria che produce e commercializza sostituti del latte materno. Alleanza che spazia dalla ricerca alla formazione ed alla prestazione di servizi, ma che in ogni caso l’industria integra nel suo sistema di marketing. Nonostante importanti riviste mediche americane, inglesi e tedesche pubblichino fin dall’inizio del XX° secolo articoli che mostrano come i bambini alimentati con latte di formula abbiano una mortalità, e più in generale uno stato di salute e nutrizione, peggiore di quella dei bambini allattati al seno, l’alleanza si estende e si rafforza. Attualmente l’industria finanzia gran parte della ricerca sull’alimentazione infantile, la quasi totalità dei congressi pediatrici e su argomenti e per professioni affini, molti corsi di formazione, e una parte delle risorse necessarie per il funzionamento dei reparti ospedalieri e degli ambulatori pediatrici. Contribuisce anche alla vita delle associazioni professionali e non lesina regali di vario tipo, da costose ed esotiche vacanze alle penne che l’operatore usa per stilare le sue ricette. Questo connubio è talmente stretto e talmente strutturale da renderne difficile lo smantellamento; non è né facile né immediato, infatti, sostituire con finanziamenti pubblici o individuali l’immensa quantità di denaro sborsata dalle multinazionali. Ma, soprattutto, è considerato “naturale” dalla maggioranza degli operatori sanitari, fin dal periodo della loro formazione nelle varie facoltà; pochi sono quelli che prendono coscienza dell’intrinseco conflitto d’interessi e del fatto di essere usati come inconsapevoli strumenti di marketing.
Si stima che per ogni dollaro speso dall’industria per il marketing dei suoi prodotti tramite gli operatori sanitari vi sia un ritorno di cinque dollari. Ciò avviene in parte direttamente, cioè per le stesse prescrizioni mediche e per l’uso dei prodotti promosso all’interno dei servizi sanitari. Ma non è probabilmente il meccanismo più importante. Molto più importante è l’immagine. La figura in basso a sinistra mostra una pubblicità diffusa in Brasile nel 1948; la parola chiave è “confiança”, fiducia. Associando un latte in polvere ad un camice bianco, si promuove tra i genitori, e le mamme in particolare, l’idea che il prodotto sia “approvato dal vostro medico di fiducia”. In Italia ormai non succede più, ma in molti paesi i sostituti del latte materno sono pubblicizzati al pubblico come “approvati dalla locale società di pediatria”. La Nestlé era arrivata ad usare, fino agli anni ’70, sue dipendenti vestite da infermiere per promuovere i suoi latti negli ospedali e nei centri di salute. Per rafforzare quest’immagine, le formule lattee erano etichettate come “umanizzate” o “maternizzate”, per far passare l’idea che fossero equivalenti al latte materno.
Questi aggettivi sono attualmente proibiti dalla nostra e da altre legislazioni. Ma l’industria li ha rapidamente sostituiti con altri “health and nutrition claims”, come esemplificato dalla figura in basso a destra. Si tratta di affermazioni su veri o presunti benefici conseguenti all’uso di un prodotto. Quelli della pubblicità rivolta ai pediatri italiani, riguardanti la prevenzione di manifestazioni allergiche, sono presunti, o addirittura falsi. Si basano infatti su articoli pubblicati oltre 20 anni fa dallo scienziato canadese RK Chandra, mai pienamente accettati dalla comunità scientifica internazionale e, si viene ora a sapere, basati su dati mai raccolti e totalmente inventati: uno dei molti esempi di frode scientifica [4]. Ugualmente presunti sono i miracolosi effetti sullo sviluppo cognitivo del bambino degli acidi grassi poli-insaturi ormai aggiunti a tutti i latti artificiali, e dei vari pre- e probiotici. Ma anche se le affermazioni fossero vere, è chiaro che l’industria le usa soprattutto per migliorare l’immagine del prodotto ed aumentarne le vendite. In ogni caso non rivela mai che, quando uno qualsiasi dei suoi prodotti è stato comparato al latte materno in studi controllati, il confronto ha sempre assegnato la vittoria a quest’ultimo. Per non parlare del confronto sui costi!
Che fare?
Una volta che le madri, persuase che il loro latte sia insufficiente o inadeguato, provano il latte di formula, il mercato per lo stesso è assicurato. Il lattante che, avendo preso latte di formula, succhia meno latte materno, scatena infatti quel processo fisiologico che porterà la madre a produrne sempre meno, fino all’esaurimento. L’industria conosce alla perfezione questo meccanismo ed è per questo che concentra i suoi sforzi sulla donna che deve decidere come alimentare il figlio e sui primi giorni dopo il parto. Le forniture gratuite di latte formulato agli ospedali, ora proibite dalla legge ma ancora in voga, hanno proprio questo malefico scopo: rendere facilmente disponibile il sostituto del latte materno in modo che rappresenti per tutti, madri ed operatori sanitari, la facile ed immediata soluzione all’apparire del minimo problema con l’allattamento al seno. Il marketing non è il solo responsabile di questi problemi; fanno sicuramente la loro parte operatori sanitari non adeguatamente preparati a mettere in atto routines e pratiche che favoriscano l’allattamento. Ma se almeno in parte è responsabile, bisogna porvi dei limiti, a salvaguardia della salute pubblica. Non bisogna infatti dimenticare che nelle popolazioni a basso reddito si stimano ad oltre un milione i bambini che muoiono perché non allattati al seno. E si tratta solo della punta dell’iceberg; sotto la superficie ci sono decine di milioni di bambini ammalati e denutriti. La situazione non è così tragica nelle popolazioni a reddito medio/alto, ma anche in Italia e negli altri paesi ad alto reddito madri e bambini che non allattano stanno in media peggio di quelli che allattano.
Questi limiti sono stati posti, fin dal 1981, dal Codice Internazionale sulla Commercializzazione dei Sostituti del Latte Materno, approvato in sede OMS dall’Assemblea Mondiale della Sanità con il voto favorevole di tutti i paesi, meno gli Stati Uniti. Assieme alle successive pertinenti risoluzioni, votate a stragrande maggioranza ogni due anni dalla stessa Assemblea, il Codice Internazionale rappresenta un corpus di regole che, se tradotte in leggi nazionali ed applicate nella lettera e nello spirito, ci farebbero tornare al 1867, cioè all’uso dei sostituti del latte materno solo in casi di provata necessità. Purtroppo però non tutti i paesi membri dell’OMS hanno tradotto il Codice Internazionale in leggi nazionali. Al momento, solo una quarantina di paesi hanno una legge che rispecchia il Codice Internazionale al 100% o quasi, una trentina non hanno nessuna legge, i restanti 130 sono in situazioni intermedie ed hanno in generale leggi più deboli del Codice; l’Italia, assieme agli altri paesi dell’Unione Europea, è tra questi. Ma anche dove le leggi esistono, non è facile metterle in pratica. In parte a causa della debolezza dei sistemi giuridici e di controllo di molti paesi. Ma anche perché l’industria inventa sempre nuovi trucchi per aggirare la lettera e lo spirito del Codice Internazionale. Guardate la figura qui sotto (si tratta della faccia rivolta verso il paziente di un calendario per la scrivania del pediatra). Il Codice Internazionale proibisce di promuovere commercialmente qualsiasi sostituto del latte materno. Dal momento che si raccomanda di alimentare solo con latte materno il bambino fino a sei mesi compiuti, un cereale (come quello della figura) presentato come utilizzabile sotto i sei mesi è un sostituto del latte materno. La sua pubblicità costituisce una violazione del Codice Internazionale. Ma notate la sottigliezza: la pubblicità non cita l’età del bambino, dice soltanto che quando la mamma nota che il figlio mette spesso le mani alla bocca, allora è pronto per il suo “primo gentile alimento”.
Notare che stiamo parlando ancora una volta di mamme e bambini perfettamente sani. È evidente che se non riusciamo a porre un freno alla fantasia ed all’enorme quantità di denaro (tra il 10% ed il 20% del budget complessivo) che l’industria è disposta a spendere in marketing, avremo sempre una spinta ad usare il latte di formula come chewing gum. Questo freno deve agire ad ogni livello, ma dev’essere azionato soprattutto nell’interfaccia tra industria ed operatori sanitari. I quali, solo per fare un esempio, dovrebbero “svezzarsi” dalla dipendenza dall’industria, in tutti i sensi. Dovrebbero, per esempio, evitare di aiutare l’industria ad aggirare la legge, come il primario di pediatria della figura qui sotto che non solo accetta la turnazione dei latti, ma ordina addirittura ai suoi subalterni di prescrivere il latte di turno e di inserirne il nome nella lettera di dimissioni.
Ma la faccenda non riguarda ormai solo i pediatri. L’industria, come per i farmaci, si rivolge ora anche ai giornalisti, che poi potranno inondare l’opinione pubblica, e quindi anche i pediatri, attraverso i vari inserti salute che ormai non mancano in nessun periodico o quotidiano, per non parlare della TV, con informazioni “addomesticate”. Recentissimo l’episodio di giornalisti invitati dalla Danone, mediante una ditta di pubbliche relazioni, al Park Hotel “Villa Quaranta, dimora seicentesca, una delle più incantevoli ville della Valpolicella Classica, territorio ricco di storia, cultura e tradizioni. L’Hotel, il Centro Congressi ed Eventi, le Terme della Valpolicella, il Ristorante Borgo Antico, la Cantina in Villa ma al tempo stesso il Parco e la Chiesetta medioevale sono il mondo di Villa Quaranta: unico, esclusivo, amico ed accogliente, attento e discreto.” Per indottrinarli sulla necessità di evitare l’uso del latte di mucca fino a tre anni, a favore naturalmente dei latti formulati. Basta leggere i giornali e i comunicati stampa posteriori all’evento per verificare che la strategia di marketing ha avuto l’effetto sperato, grazie anche all’eco prestato da molti pediatri (inconsapevoli?).
Conclusione
Ho cercato di mostrare come i meccanismi che portano ad un uso generalizzato ed improprio di sostituti del latte materno siano in atto da oltre 100 anni e siano basati sugli stessi principi adottati attualmente dalle multinazionali del farmaco per inventare malattie e farne commercio. Non per nulla l’industria del latte formulato, avendo fatto in modo che nel corso degli anni i suoi prodotti, per lo meno in Italia, si vendano prevalentemente in farmacia, resiste a qualsiasi tentativo, dall’alto e dal basso, di privilegiarne la vendita attraverso i normali canali commerciali. Vuole cioè che, fino a quando è possibile, i suoi prodotti conservino nell’immaginario collettivo le sembianze di un farmaco. Inutile dire che in questa disputa riesce ad avere al suo fianco, fedeli alleati, la maggioranza dei pediatri, che difficilmente rinunciano ad un congresso o ad un corso sponsorizzato.
C’è chi pensa che questa tendenza debba essere portata all’eccesso; che il latte di formula debba essere cioè catalogato ufficialmente come farmaco (attualmente, in tutti i paesi del mondo meno Israele, è catalogato come alimento speciale). In questo modo, sostengono coloro che propugnano questa soluzione, sarebbe usabile solo con ricetta medica, e quindi solo quando mamma e/o bambino siano gravemente ammalati ed impossibilitati ad allattare. La parallela vicenda del “disease mongering” dovrebbe insegnarci che così non è: anche un farmaco usabile solo con ricetta medica può diventare come il chewing gum. Io penso, perciò, che sia preferibile il contrario: che il latte di formula debba essere equiparato alle melanzane. Forse, declassato da prodotto medico ad ortaggio, cesserebbe di essere appetibile per i pediatri e di far concorrenza al latte materno.
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